Per fortuna.
Da ragazzo non sognavo di fare il calciatore. Ma ho giocato a calcio, come quasi tutti i ragazzi della mia età.
Mi piaceva giocare all’ala. Più o meno. All’ala destra.
Un giorno, non ricordo chi, qualcuno mi si avvicinò e mi disse che, da come mi muovevo in campo e da come giocavo, somigliavo a Cruijff. Quel giorno provai un senso estremo di felicità, mi sembrò di toccare il cielo con un dito.
Mica era vero, però, che somigliavo a Cruijff, se non per i ciuffi di capelli, lunghi e sudati, che mi cascavano sulla fronte. Non avevo la corsa rapida dell’ala d’attacco, ma ogni tanto con un dribbling riuscivo a saltare l’avversario. Non avevo nemmeno la visione di gioco di un trequartista, a dirla tutta. Però segnavo, avevo un buon tiro.
Qualche settimana dopo feci un provino in una società dove già giocavano alcuni miei amici, tutti assai più bravi di me, neanche a paragone.
L’allenatore continuava a lanciarmi sulla fascia. Dovevo correre per cinquanta metri, dalla linea di centrocampo arrivare all’altezza del corner, e poi crossare. Andai avanti così, a correre e a crossare, per almeno un’ora, un’ora e mezza. E lì compresi che mi piaceva il calcio, ma non avrei mai sopportato gli allenamenti.
Raggiunsi l’apice della carriera calcistica un pomeriggio di primavera, su un campo in erba vicino alla spiaggia del Poetto, dove un tempo si allenava il Cagliari.
Torneo liceale, partita decisiva per il passaggio del turno. Primo tempo: calcio d’angolo in attacco, provo a saltare ma qualcuno mi butta giù, mi rialzo, il difensore rinvia, mi volto di schiena, il pallone mi rimbalza sul culo, sbatte sul palo e si infila alla sinistra del portiere.
Credo di aver gioito, ma in maniera molto misurata.
E comunque alla fine perdemmo. Perdemmo proprio male, voglio dire.