Leonida Fusillo
Leonida Fusillo fece il suo ingresso nella hall trascinandosi appresso un bastardino marrone dalla coda mozzata. Il cane sollevò la zampa e strisciò un po’ di urina sul portaombrelli. Il portiere storse il naso ma non disse nulla. Le stravaganze erano di casa, in quell’albergo. Come le puttane e i delinquenti, del resto.
Leonida Fusillo si avvicinò al nostro tavolo, ci guardò con discreto disinteresse, poi disse al cameriere di portare una bottiglia di rum e quattro bicchieri. Si accese una sigaretta, gettò via il fumo, quindi tossì e sputò un grumo di catarro sul muro. Le buone maniere non erano mai state il suo forte.
Si sedette su un divanetto, accavallò le gambe e ingollò una sorsata di rum.
– Per quanto vi possa interessare – sbottò – i miei pensieri in questi giorni sono una specie di lurido bar del porto con annesso postribolo di basso bordo. Laprima cosa che mi passa per la testa è anche l’ultima ad andarsene, e io qui, come ogni mattina, a ripulire i pavimenti sporchi di crema, sangue, e acciughe andate a male. Ve lo dico chiaro e tondo: mi sono rotto il cazzo. E ‘fanculo alle gelatine d’arance. Quelle che ho mangiato ieri notte sapevano di colla per barche.
Nessuno di noi fiatò. Leonida Fusillo spense la cicca sul bracciolo del divanetto e si alzò.
– Va bene – disse – ora bevete l’ultimo sorso di rum, poi andiamo, ché c’è da dar fuoco alla città.