Quaderni del coprifuoco (1).
Ieri, poco dopo le ventidue, mi sono affacciato al balcone, ho alzato la testa in direzione della Cintura di Orione e ho ascoltato il silenzio nell’aria, ondeggiante come una sagoma di gelatina. Quel silenzio mi parlava. In quale lingua, però, non saprei.
Un istante dopo si è avvicinato Marcel Proust, il cane di Arturo. Mi ha guardato e ha sollevato l’orecchio destro. Gli ho detto che non era il caso di allarmarsi, che tutto quel silenzio aveva a che fare con il coprifuoco.
Arturo nel frattempo sonnecchiava sdraiato sul divano, davanti al televisore, la bocca spalancata, un piede sul pavimento, l’altro sospeso nel vuoto. Trasmettevano un documentario sulla seconda guerra mondiale. Filmati in bianco e nero, per lo più, commentati da un conduttore in doppio petto.
Marcel Proust ha sollevato anche l’orecchio sinistro, gli occhi sempre fissi sui miei. Al che ho capito che non gli sarebbe dispiaciuto fare una pisciatina.
Così siamo usciti e ci siamo diretti verso uno slargo oltre la strada principale, all’interno di un piccolo recinto alberato. Lì abbiamo incrociato Sigfrido, un barboncino dal pelo scuro, noto per le sue scorribande amorose nel quartiere. Si agitava attorno a un cespuglio di erba secca, sotto lo sguardo un po’ stranito del professor Genovesi, ottantadue anni, statura ben al di sotto della media, ex insegnante di chimica, ex militante comunista, ex tennista, ex cacciatore, ex tante altre cose, che ciondolava con il guinzaglio in una mano e una bottiglietta di plastica nell’altra.
Appena mi ha visto ha sbuffato, visibilmente infastidito dalla nostra presenza. Ho risposto con un cenno del capo, che più o meno voleva dire Mavaffanculo.
Sigfrido e Marcel Proust, invece, si ignoravano semplicemente. Cose da cani, ho pensato.
– Ha presente quel proverbio zen? – ha detto a un certo punto Genovesi.
– Quale? Ce ne sono milioni.
– Ma che cazzo milioni.
– Va bene, migliaia. Comunque no, non ce l’ho presente.
– “Al termine del gioco senza fine, c’è amicizia”.
Ho lasciato decantare le parole, mentre Marcel Proust pisciava liberamente su una zolla di terra scura.
– Non sta andando proprio in modo soddisfacente, vero? – ha detto ancora Genovesi, rizzando un angolo della bocca, come se una specie di spasmo muscolare l’avesse preso all’amo.
Non sapendo che cosa dire, ho risposto con il solito movimento della testa. E per un quarto d’ora siamo rimasti in silenzio, ognuno per conto suo.
Una volta rientrati a casa, abbiamo trovato Arturo nella stessa posizione in cui l’avevamo lasciato. Era sveglio, però. Guardava il soffitto.
– Tu stai covando qualcosa – gli ho detto.
Lui ha fatto un lungo sospiro, si è sollevato la maglietta e ha messo a nudo una porzione di carne addominale. Vi ha battuto sopra una mano, due o tre volte.
– Mi sa che ho fame – ha detto. Poi si è alzato, è andato in cucina.
Ho spento il televisore e ho dato un buffetto alla statuetta del Budda sulla libreria. Più o meno in quell’istante mi è venuto da pensare che il mondo in cui viviamo potrebbe essere un mondo immaginario, totalmente inventato, ma non così distante dal mondo reale.