Quaderni del coprifuoco (9).
Ieri, dopocena, mentre Arturo sparecchiava e Marcel Proust sonnecchiava davanti al televisore spento, mi è venuta in mente quella volta che avevamo deciso di acquistare un casolare, una specie di fattoria da ristrutturare, con decine di ettari di terreno, alberi da frutto, eccetera. Ci sembrava una buona idea, lasciare la città e trasferirci in campagna.
Il casolare apparteneva a una donna che abitava a una decina di chilometri di distanza. La zona, le geometrie dei paesaggi e i tagli di luce richiamavano alla memoria alcuni soggetti campestri di Chagall. Però molto più sgraziati.
Lei, la proprietaria, si chiamava Pasqualina. Era una tipa rotonda, gli occhi celesti, grandi e vispi, il colorito rubicondo e due canini d’oro. Aveva l’aspetto di una mela enorme, con i capelli lisci, lunghi e nerissimi. A quanto ne sapevamo, la sua occupazione principale consisteva nel gestire un ingente patrimonio immobiliare ereditato dalla famiglia paterna. Viveva da sola, era stata sposata con un astronomo, non aveva figli.
Una mattina di maggio andiamo lì per trattare il prezzo dell’acquisto. Arriviamo all’ora di pranzo, io, Arturo e Marcel Proust. In auto, durante il viaggio, nessuno ha aperto bocca, nemmeno Marcel Proust.
Parcheggiamo, scendiamo. Pasqualina è lì, ci aspetta sulla porta di casa, più simile a una stamberga che a una casa vera e propria. La donna ci squadra da capo a piedi e ci accoglie con una breve sequenza di quesiti.
– Tutto bene? Perché avete quelle facce da stronzi? Siete depressi?
Non dico Marcel Proust, ma è innegabile che io e Arturo abbiamo sempre incarnato l’archetipo di un’umanità perdente. Tuttavia, mentre la osservo, avvolta da una vestaglia a fiori rossi e gialli, le ciabatte di Snoopy, le tette enormi, le guance gonfie e un cacciavite in mano, mi chiedo quale tipo di reputazione possa sbandierare questa donna.
A ogni modo, Pasqualina ci fa cenno di entrare. Nell’andito regna un discreto puzzo di piscio di gatto. Il salone è un trionfo di poltroncine di raso rosa, vasi vuoti, libri, soprammobili, bambole di porcellana e altre cianfrusaglie. Su una credenza sono disposte in fila diverse bottiglie di liquori. Pasqualina ne afferra una, prende tre bicchieri impolverati, li ripulisce alla bell’e meglio con uno straccio unto e vi versa due dita di liquido giallastro.
– Sedetevi – dice, porgendoci i bicchieri – e state tranquilli. Non ho alcuna intenzione di attentare ai vostri congegni encefalici. Siete dei perdenti, ve lo si legge in faccia. Credo che siate proprio delle merde. Delle merde comuni, tra l’altro. La miglior sorte che vi possa capitare è che qualche scarpa di buona fattura vi calpesti e vi porti in giro per il mondo. Se siete venuti fin qua per trattare, avete sbagliato indirizzo. Sarebbe più facile vendermi qualcosa, indurmi a cambiare religione o stile alimentare. Se invece avete intenzione di fregarmi, l’unico consiglio che posso darvi è di smammare, e anche alla svelta. Per vostra opportuna conoscenza, e perché poi non si vada in giro a dire che non vi avevo avvisato, sappiate che nella tasca della vestaglia porto sempre una pistola con due colpi in canna.
Con la mano si tocca all’altezza dell’inguine, là dove in effetti si evidenzia un rigonfiamento, un tipo di volume assai comune nell’uomo ma assolutamente raro nel genere femminile.
– Sappiate anche che, di norma, non amo sprecare pallottole. Perciò, prima firmiamo il contratto, meglio è per tutti. Prosit.
Al che solleva il bicchierino, beve tutto d’un fiato e si lascia cadere su una seggiola in vimini.
– È un piacere fare la sua conoscenza, signora Pasqualina – dico.
– Se non mi chiami signora è meglio.
– Meglio per chi?
– Meglio per te. Meglio per voi, s’intende.
– La dovremmo chiamare signorina? – dico.
Pasqualina sospira e si gratta la tetta destra.
– Ho come l’impressione che voi due abbiate molti più coglioni che neuroni – dice, dopo aver estratto la rivoltella e averla posata con gesto plateale su un tavolino di legno, tondo e barocco.
Arturo si volta e mi offre uno sguardo che tradotto suona così: La cosa si fa interessante.
– Ragazzi miei – dice lei – ne ho conosciuto fin troppi di furbi e stronzetti come voi. Ogni volta mi domando: come possono essere così presuntuosi da pensare di mettermela in culo?
– Con tutto il rispetto – dico – non gliela metteremmo nel culo nemmeno se ci costringesse.
– Mi dissocio – commenta Arturo sollevando un braccio – su questi temi la penso diversamente da lui.
Pasqualina sorride, afferra i bordi della vestaglia e se la tira su, poco sopra le ginocchia, il tanto che basta perché Arturo si possa fare un’idea.
– No, no, no – dico, agitando le mani. – Non mi sembra il caso.
– Allora vediamo di chiudere subito la questione.
– Va bene – dico, contemplando l’insieme di cosce e vestaglia con lo stesso sguardo con il quale potrei apprezzare un pezzo di vomito.
– Centoquarantamila. Affare fatto – dice lei.
Con Arturo ci scambiamo un’occhiata rapida: non oltre centomila.
– Quindi? – fa lei.
– Dice a me? – domando.
– Dico a te e a quel coglione del tuo socio.
– Non siamo soci – osserva Arturo.
– Va bene, siete soltanto coglioni.
– Centoquaranta ci sembra un po’ troppo.
Pasqualina sbuffa, tira su il mento e guarda il soffitto.
– Quel casolare e quel terreno – dice – appartenevano ai miei nonni. E prima che appartenessero a loro, appartenevano ai nonni dei miei nonni. Erano persone che ci sapevano fare, i miei avi. Sapevano cavar fuori il sangue dalle pietre. Coltivavano tanta di quella frutta e di quella verdura che avrebbero potuto sfamare un esercito. Miei nonni sono morti di vecchiaia, mica di quelle orrende malattie che oggi ci regala il progresso. Nonno a novantasette anni, nonna a novantanove. I loro nonni erano arrivati a centodieci e centonove. E comunque sia, ci sono affezionata, a quel pezzo di terra. E sono affezionata anche a quel casolare. Sì, è una specie di rudere. Ma provate soltanto a profanare quel posto, e giuro che vi ammazzo. È un bel posticino. Be’, insomma, un paio di lavoretti andrebbero fatti. Ma se fossi in voi non ci butterei sopra troppi quattrini. Del resto non mi sembrate tipi abituati al lusso o certe comodità.
Poi fa una pausa. Lunga.
– Centotrentacinque.
– Oltre centomila siamo rovinati.
– Siete rovinati a prescindere – sibila lei.
– E che ci dice di quel problema?
– Quale problema?
– Il vincolo della soprintendenza. Quegli scavi archeologici.
– Scavi del cazzo. Non c’è nulla lì attorno. Solo pietre. Stupide pietre.
– Si chiamano menhir. C’è tutta una cultura dietro.
– Cultura? Su quelle pietre c’hanno pisciato generazioni di allevatori e agricoltori. Poi un giorno si fanno vivi quattro archeologi da strapazzo, parlano forbito, tirano qualche colpo di piccozza qua e là, e si permettono pure di chiamarla cultura.
– Be’, come la vogliamo chiamare?
– Non mi interessa. E comunque, tutto ciò non fa che aumentare il pregio dell’area. Se si tratta di cultura, state certi che il posto non vale meno di centotrenta.
– Centocinque.
– Centoventotto.
– Centootto.
– Centoventicinque.
– Centodieci.
– Centoventi.
– Centoquindici.
– Affare fatto. È stato un piacere trattare con voi. Questo è il numero del mio avvocato – dice lei, porgendoci un bigliettino da visita stropicciato. – Chiamatelo domani mattina. È con lui che definirete tutti i dettagli. Ora levatevi di torno.
– Non vediamo l’ora di tornare – dico.
– Sì, Pasqualina, non vediamo l’ora – aggiunge Arturo. – Ti porterò un bel mazzo di rose.
– Non fatevi più vedere. Siete peggio delle incrostazioni di merda sul water.
Pasqualina si alza e, pistola in pugno, va verso la finestra. Si affaccia, prende la mira e con un colpo secco fa fuori una cornacchia appollaiata su un albero.
– Uccelli inutili e fastidiosi – dice, sgranando le pupille e scaraventando sulla seggiola l’arma ancora fumante.
Poi, il giorno dopo, l’avvocato non l’abbiamo chiamato. Ci era passata la voglia di andare a vivere in campagna.