A babbu mortu

A babbu mortu.

E poi c’è chi mi scrive e mi dice che – a proposito delle angherie del banchiere con la bocca e il vestito da squalo – “la solidarietà in questi casi è d’obbligo ma purtroppo voi siete solo la punta dell’iceberg”.

Chi mi scrive mi dice che “la maggior parte dei lavoratori ha subito o subisce torti, anzi, vere e proprie umiliazioni sul lavoro. La maggior parte dei lavoratori è costretta a subirle, queste umiliazioni, per evitare guai peggiori, ma soprattutto per mancanza di alternative”.

Chi mi scrive mi dice che ha letto e ha saputo “dei compromessi che, a denti stretti, avete dovuto accettare, pur di conservare il lavoro e lo stipendio”.

“Sappi però – aggiunge – che ormai è ritenuto normale, quando lavori per aziende private, ricevere lo stipendio a babbu mortu, con 3,4,5 mesi di ritardo. Il mio record è stato 8 mensilità arretrate! Ormai è reputato normale doversi presentare almeno un’ora prima al lavoro, e andare via con un’infinità di ore di straordinario, tutto regolarmente non pagato. Ormai è sdoganato per le donne il dover firmare fogli di dimissioni allo scopo di prevenire inopportune gravidanze. Tutto agevolato dall’inconsistenza della giustizia civile italiana che richiede tempi biblici per dirimere i dissidi sul lavoro, e grazie alla complicità neanche tanto celata dei sindacati”.

“Paradossalmente – aggiunge – quelli nella tua posizione, o gli operai dell’Alcoa, della Carbosulcis, comunque delle grandi aziende, non sono visti di buon occhio dalla maggioranza delle persone. Voi siete come una grande barca che affonda. Ma c’è chi purtroppo non può contare nemmeno su una grande barca, solo su una scialuppa. E c’è chi non ha neppure quella, e fa il morto a galla”.

“La differenza di welfare tra lavoratori tutelati e non, purtroppo, è il muro che divide il mondo del lavoro. Ogni giorno restano senza lavoro oltre mille persone, ma nessuno ne parla. Ogni giorno, centinaia di lavoratori devono subire veri e propri ricatti, abusi di potere e angherie ben peggiori di quelle che dovete subire per mano del banchiere con la bocca e il vestito da squalo”.

“Non fraintendermi – conclude – non è mia intenzione fomentare una guerra tra poveri. Vorrei però che concentrassi il tuo focus, non su situazioni particolari ma sulla situazione generale, sulla centralità del lavoratore e sulle cause che hanno condotto a questo sistema, un sistema perverso, avvitato su se stesso, in un degrado che pare non avere limiti. Manca la solidarietà tra lavoratori, quella vera, non quella degli scioperi generali, esercizi di potere di una parte marcia del paese”.

 

 

 

5 Comments

  • Ettore Martinez

    18 Ottobre 2012 at 10:35

    “La prostituzione della cultura si è inestricabilmente saldata con una strutturale cultura della prostituzione”
    (E.M. un detournement alla Raoul Vaneighem)

    Per usare una terminologia classica si potrebbe osservare che viviamo in una fase di *reazione padronale* piuttosto accentuata. Quello che un po’ sgomenta è l’ignavia di (buona parte di) quella che dovrebbe essere la giovane generazione di ricambio della classe dirigente, letteralmente narcotizzata. Non credo che la marcescenza della Questione Morale sia estranea a tutto questo. E’ un discorso assai complesso per il quale non mi pare di vedere all’orizzonte credibili Categorie che catturino la realtà e soprattutto persone credibili decise a trasformarla. Una volta nascosto, più che veramente eliminato dalla scena, Berlusconi infatti, l’ingenuo generoso e credulone popolo ex PCI ed ex tutto il post successivo, si è dovuto rendere conto dolorosamente di essere guidato da gente che era solo meno peggio. E’ solo un esempio perché al momento, a mio modesto avviso, non si salva nessuno.

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  • Fabio

    18 Ottobre 2012 at 09:31

    “La gravità sta nel fatto che questa opera di smantellamento viene presentata ai disoccupati e ai precari come l’unica iniziativa possibile per ampliare il mercato del lavoro, per dare risposte alla disoccupazione”. Eccolo, il punto. Gianni l’ha individuato. Quel malefico, terrificante, osceno luogo (ormai tristemente diventato) comune per cui “oggi funziona così”. Non è vero. La volgarizzazione, lo smantellamento pezzo per pezzo del diritto del lavoro realizzatosi nell’ultimo decennio è l’unico schifoso risultato di quella PAZZIA chiamata “flessibilità”: vocabolo utilizzato senza la minima cognizione di causa, con paragoni assurdi alle situazioni estere e partendo dall’innominabilità di una legge, quella Biagi, che nella sua concreta attuazione ha portato a una sola conseguenza: la disintegrazione di una generazione intera. Non è nemmeno descrivibile la profondità della piaga, la gravità dell’infezione del tessuto sociale che è seguita all’introduzione nel nostro sistema giuslavoristico di questa parolina: flessibilità. Ossia: povertà. Ricatto. Debolezza infinita del lavoratore. Abbassamento della qualità. Addio ai sogni. Alle minime certezze. Alle prospettive di disegno di vita. Questa è stata ed è la “flessibilità” in salsa italiana: IL MALE ASSOLUTO. Che, come ha scritto Gianni, viene spacciata ormai per “l’unica soluzione praticabile”. Con la conseguenza, altrettanto oscena, del “eh ma almeno tu un lavoretto ce l’hai”. Lavoretto, appunto. Quelli che danno adesso: cocoprò-cococò-coccodè. Porcate nemmeno presentabili 20 anni fa, e anche meno. Aborti giuslavoristici. Essere invidiati per un cocoprò è un nonsense. Esserlo per ricevere la paga (ridotta) con ritardi di 2-3 mesi (e guai a fiatare)…beh, sì, ha ragione Gianni: c’è decisamente qualcosa che non va.

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  • Francesca

    11 Ottobre 2012 at 11:14

    ciao gianni. Questo tuo post mette in evidenza due pericolosi fenomeni di questo tempo: la “guerra tra poveri” e la conseguente indifferenza, quando non fastidio, da parte di chi è disoccupato (o “diversamente occupato”, cit. un amico) verso chi ha un lavoro. come a dire “ma cosa vogliono questi, almeno loro lavorano”.

    Come se quello che i lavoratori vogliono, o per cui combattono, cioè i diritti del lavoro (fra cui quello di lavorare con dignità e di essere pagati), fosse un “di più” rispetto alla normalità.
    Imprenditori-predatori, sindacati che tirano a campare,Marchionni vari e professionisti del paraculismo (e dei contributi pubblici): mi verrebbe quasi da dire che non è colpa loro, che giustificano così la loro esistenza, ma nostra, che abbiamo permesso questo andazzo e ancora oggi lo subiamo, e abbiamo completamente dimenticato il valore e il potere della solidarietà tra lavoratori.

    un saluto (e tenete duro!) 🙂

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  • Gianni

    9 Ottobre 2012 at 12:46

    Non lo so, ritengo che ci siano argomenti un po’ deboli, e forse anche un po’ di “benaltrismo”, come dice un mio amico, nel messaggio che mi è stato inviato, e che ho voluto comunque pubblicare.
    E l’ho voluto pubblicare proprio perché le parole di chi mi scrive nascono da un sentimento, comune e diffuso, che purtroppo si sta radicando. Un sentimento – come potrei definire? – di astio e di fastidio da parte di chi non ha lavoro, o ha un lavoro precario, o è sottopagato e sfruttato, nei confronti di chi un lavoro, per sua fortuna, ce l’ha, ma è costretto a difenderlo con i denti, ogni giorno, come in un fortino circondato e assaltato da avversari sanguinari. Ogni giorno, infatti, qualcuno si sveglia e sferra l’ennesima picconata al quadro dei diritti costituzionali, giuridici e contrattuali maturati dai lavoratori in decenni di battaglie sociali. La gravità sta nel fatto che questa opera di smantellamento viene presentata ai disoccupati e ai precari come l’unica iniziativa possibile per ampliare il mercato del lavoro, per dare risposte alla disoccupazione. La risposta dei sindacati a questo stato di cose, bisogna dirlo, non è (non è stata) proprio all’altezza, fatte le debite eccezioni. Nel caso di Sardegna 1, è sempre passata una linea di mediazione al ribasso. Una linea che – personalmente – ho sempre rigettato, discostandomi dalle decisioni prese dalla maggioranza dei lavoratori, perché credo che in certi casi le risposte debbano essere dure e ferme, non molli e ondivaghe. Il risultato è che negli ultimi sei anni l’asticella delle trattative s’è piegata sino a raggiungere il pavimento, o quasi, mentre la postura dei dipendenti s’è assestata su uno scomodissimo angolo di novanta gradi. A vincere, insomma, è stata la filosofia miopie di alcune scelte sindacali: “sì, vabbe’, l’accordo non è il massimo, su, c’è da soffrire, che ci volete fare, ma almeno abbiamo salvato i posti di lavoro, eh”. Disgusto. Ma non perché sia contrario ai contratti di solidarietà, tutt’altro.
    L’accordo ha consentito all’azienda di risparmiare in un anno oltre 400 mila euro sul costo del personale. Un sacrificio che permette alla tv di chiudere in pareggio il bilancio 2012, per stessa ammissione della proprietà. Senza dimenticare che nel frattempo la Regione ha avviato un piano per la formazione che garantirà all’emittente di incassare ulteriori risorse. E non solo. La FRT, associazione delle televisioni locali, alla quale Sardegna 1 è federata, ha appena annunciato che il Governo ha approvato il piano di contributi per il 2012 (110 milioni di euro da spartire tra tutte le emittenti in Italia).
    Ecco, a fronte di tutto ciò, gli stipendi non vengono pagati e le regole contrattuali vengono calpestate. C’è qualcosa che non va, o sbaglio?
    Infine, per chiudere il discorso sulla “solidarietà” e sul “lavorare tutti lavorare meno”, la questione è che si è trattato di un sacrificio enorme – lo ripeto – enorme e quasi certamente inutile. Un sacrificio di questo genere avrebbe avuto senso in un’azienda “normale”, in un’azienda con reali progetti di rilancio. Le vicende di questi giorni lasciano intuire che la “normalità” e la “progettualità”, a Sardegna 1 non sono di casa. Questo i sindacati lo sanno, lo sapevano, lo hanno sempre saputo.

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