Cara Germania ti scrivo.
Sono seduto insieme a un’altra dozzina di persone in sala d’attesa al Pronto soccorso e a un certo punto arriva questa coppia, due turisti sulla trentina in tenuta quasi balneare; lei stringe un paio di fogli tra le dita ed è molto agitata, mentre lui, più compassato, tiene in braccio un bambino che avrà più o meno due anni.
– Come si fa? A chi posso chiedere? – dice lei rivolgendosi a noi che la guardiamo.
– Signora, deve suonare il campanello – dice una donna, e con la stampella indica una porta a vetri.
– Il bambino è caduto, si è morsicato la lingua. Eravamo all’ospedale di Carbonia, ci hanno detto di venire qui.
– Eh – fa la donna con la stampella – inza’ tanti auguri! C’è da aspettare, guardi la fila. Pultroppo la sanità funziona così – e accompagna la frase con una smorfia.
L’uomo col bambino intanto suona il campanello.
– Da Carbonia venite? In vacanza?
– Sì – risponde lei, sempre più agitata – abito in Germania, sono figlia di emigrati.
– Eh, in Germania le cose funzionano. Non è come in Italia, vero? Guardi: guardi la fila che c’è – e fa un ampio gesto con la stampella.
In quel frangente si apre la porta a vetri; fanno capolino la testa e il braccio di un infermiere.
– Chi ha suonato? – dice.
– Noi. Il bambino è caduto. Eravamo all’ospedale di Carbonia. Ci hanno detto di venire qui.
– Prego, entrate.
Un istante dopo, la porta a vetri si richiude alle spalle della coppia, del bambino e dell’infermiere.
Dal fondo della sala d’attesa si leva la voce di un tizio sulla quarantina che fino a quel momento se n’era rimasto immobile, le mani a sorreggere la testa china in avanti.
– As bìu? Là ghe la Germania ci sbatte la faccia in culo!