Cose che ho pensato (ventisei).
146.
Una volta ho pensato di raccontare quel sogno in cui io e Davide Sanna, il mio amico musicista che vive a Londra, dovevamo suonare per un boss mafioso a New York. Ci trovavamo in un hotel di lusso e indossavamo vestiti molto eleganti. Dal soffitto del teatro pendevano enormi lampadari di cristallo. La sala era quasi al completo e mancava un quarto d’ora all’inizio del concerto. Aspettavamo in camerino, dove qualcuno ci aveva portato bevande, noccioline e una grande fruttiera. Mi sentivo a mio agio: piluccavo un grappolo d’uva e tenevo in grembo un mandolino. Davide invece era nervoso, camminava avanti e indietro e pizzicava di continuo le corde della sua chitarra. A un certo punto gli avevo chiesto perché fosse così agitato. Lui mi aveva detto “Ma tu lo sai suonare il mandolino?”. “No”, gli avevo risposto. “Ecco”, aveva detto lui, “il boss ci ammazzerà”. Al che avevo smesso di piluccare uva e avevo iniziato a sentirmi un po’ a disagio.
147.
Una volta ho pensato che un giorno o l’altro scoprirò il gene che fa di me il miglior cliente idiota che una compagnia di telefonia mobile possa sperare di incontrare.
148.
Una volta ho pensato di essere un bicchiere di vino rosso. Mi davo certe arie da Bovale nel Grand Ballon. Poi Arturo mi ha assaggiato e ha detto che sapevo di tappo.
149.
Una volta ho pensato di fare il funambolo. Avevo dieci anni e pensavo che il funambolo fosse un’altra cosa.
150.
Una volta ho pensato che tutto sommato basterebbe amarsi un po’ di più, gli uni con gli altri, senza fare troppe storie.
nella foto, nemmeno un funambolo