Della dittatura dei gasteropodi e dell’acqua potabile.
Lasciate che vi racconti di come andò quella volta che la città rimase senz’acqua potabile per dieci giorni.
Per prima cosa decidemmo di boicottare le elezioni. Ci organizzammo in gruppi. I più moderati, travestiti da pioppi gommosi, entrarono nei seggi elettorali e stuprarono le schede marchiando con il sangue la fronte degli scrutatori. I più agguerriti, invece, armati di lanciafiamme e sacche di fagioli al napalm, non esitarono a dare fuoco a interi caseggiati scolastici, lasciando dietro di sé enormi colonne di macerie fumanti.
Noi rubammo un autobus e, dopo aver consumato un pasto frugale a base di mollica secca e carne di pollo bollita nel brodo di birra, ci dirigemmo nella notte verso la Villa del Governatore.
Per mantenere alto il morale e gonfiare di euforia le nostre giunzioni neuromuscolari, da una bomboletta spray inalammo a turno un concentrato di erbe sacre, efedrina e colla da calzolaio. Subito le nostre pupille guizzarono come calamite bramose.
A ridosso della Villa ci scontrammo con le prime sacche di resistenza. Un manipolo di lealisti avanzò facendosi scudo di abnormi spille propagandistiche raffiguranti l’effigie del Capo. I primi sventurati caddero in un battito di ciglia: li catturammo e li sgozzammo brandendo lunghi gattucci di mare farciti d’acciaio e veleno. Gli altri non tentarono neanche di difendersi. Gli aizzammo contro i bocconi della milizia rivoluzionaria, i bocconi di mare più grandi e più osceni che avessimo mai visto. Erano stati allevati a ridosso della raffineria e, oltre ad avere piccole mani, piedi senza dita e denti aguzzi, erano dotati di baffi lunghissimi, scuri e taglienti come coltelli malesi. Straziarono i corpi dei nemici cibandosi delle loro carni e persino delle loro cartilagini. Noi restammo a guardare la scena in silenzio. Poi riprendemmo il cammino.
Scavalcammo una cancellata e ci ritrovammo nel giardino della Villa del Governatore. Circolava voce che si trattasse di un luogo strano e stomachevole, popolato da creature orripilanti: il Drago del Piano Paesaggistico, il Ragno della Zona Franca, la Lucertola della Flotta Sarda. Si diceva persino che nel folto della vegetazione, sugli alberi dalle foglie lucide o negli anfratti più umidi vivessero strane forme di vita chiamate Assessori.
Ma noi eravamo pronti a tutto. Ci aspettavamo il peggio.
Dopo aver vissuto per mesi nella campagna elettorale, dopo aver udito slogan e promesse di ogni tipo, e dopo aver patito l’umiliazione della sete e della città senz’acqua, immaginavamo che ogni cosa fosse possibile, che anche i temuti Assessori fossero creature vere, e non semplici figure mitologiche.
La Villa del Governatore era là dove si ergeva una collina, illuminata a giorno da potenti riflettori e sorvegliata da uno stuolo di armigeri che avevano fama di essere più insaziabili ed efferati di un’Autorità Portuale. Consultammo rapidamente la mappa e individuammo il percorso più breve per giungere sino all’ingresso principale. L’intenzione era quella di sfruttare l’effetto sorpresa.
Dopodiché inalammo un altro po’ di spray e ci infilammo nella selva aprendoci un varco tra nugoli di arbusti ricolmi di delibere e di decreti, infidi e fastidiosi come sciami di zanzare tigre.
Appena giunti all’altezza di una curva, sentimmo uno strano odore di zolfo e vanillina. Un istante dopo, da dietro una roccia sbucò un’ombra scura con la barba. Sembrava un gigante di merda e catrame.
Arretrammo impauriti.
Lui emise un suono roboante, come se in gola avesse un pachiderma in procinto di ruttare. Aveva il naso di fuoco e le orecchie vomitavano interiora di bovino. Davanti a quel mostro, per metà banchiere e per metà editore, la maggior parte dei nostri compagni fuggì a gambe levate, in preda al terrore.
Purtroppo fecero poca strada, giacché lui li incenerì con una smoccolata lavica.
Avremmo fatto di sicuro la stessa fine, se all’improvviso non fosse venuta in nostro soccorso una centuria di bocconi della milizia rivoluzionaria, affamati come torme di consiglieri regionali a caccia di un’indennità.
Il mostro resistette soltanto per qualche minuto. La metà editore si sbriciolò sotto le scudisciate dei baffi malesi. La metà banchiere, invece, fu più tenace. Promise conti all’estero e obbligazioni a tassi fissi, sconti sui mutui e prestiti a interessi zero. Ma i bocconi furono inflessibili. S’infilarono nello sfintere della bestia, la divorarono dall’interno per poi uscirne rapidamente attraverso la bocca, come in un giocoso spettacolo pirotecnico.
Restammo a guardare, di nuovo senza parole. Molti di noi, però, pensarono: “Beh, questi sì che son bocconi con le palle!”.
Riprendemmo la nostra marcia domandandoci quale altra immonda bestia avremmo potuto trovare lungo il cammino. Ma, a dispetto delle preoccupazioni, non incontrammo nessuno.
Eliminando il mostro, avevamo eliminato l’unico ostacolo tra noi e il Governatore.
Così entrammo nella Villa passando direttamente per l’atrio principale. All’interno regnava il silenzio assoluto.
Vagammo cauti per gli anditi, deserti e spettrali. Stanze vuote. Decine e decine di stanze vuote. Pareti nude. Nemmeno un orpello. Nemmeno un vaso. O una scrivania.
Stanze vuote: tutto qui? Era dunque questo il tempio del Potere? Per questo avevamo sfidato gli dei della morte e della risorsa idrica?
Mentre riflettevamo su questi e su altri pensieri, come per incanto si materializzò un’enorme porta dalle maniglie d’oro. La aprimmo. Introduceva a un salone ampio quanto la sala di un cinema. Le pareti erano nere, un lampadario a goccia pendeva dal soffitto. In fondo al salone, seduto davanti a una scrivania, c’era lui, il Governatore. Era vestito di tutto punto: gessato grigio, camicia bianca, cravatta blu. Sorrideva.
Brandimmo i nostri gattucci di mare e, con passo sicuro, ci avvicinammo. Non avevamo un piano prestabilito se non quello di fare piazza pulita di ogni sconcezza. E, ovviamente, di ridare acqua potabile alla città assetata. Non avevamo un piano vero e proprio ma volevamo fare le cose per bene: cioè, catturare il Governatore, farlo processare da un tribunale di saggi e garanti, e quindi offrirlo democraticamente alla folla inferocita.
Non andò così.
Un boccone della milizia rivoluzionaria, un boccone anarchico e kamikaze imbottito d’esplosivo si sfilò dal gruppo, si avvicinò al Governatore e si fece saltare in aria. Nessuno riuscì a fermare il suo folle gesto.
Fummo scaraventati per terra. E solo parecchi minuti dopo l’esplosione, una volta diradata la coltre di fumo e di polvere da calcinacci, riuscimmo a vedere e a intuire.
Restammo di stucco.
Del boccone anarchico non erano rimaste che tracce di baffi malesi e granelli di guscio. Del Governatore, o chi per lui, erano rimasti invece brandelli di tessuto, schegge di legno e briciole di cartapesta.
Fu così che capimmo.
Il Governatore, in realtà, non era mai esistito. Non era mai stato eletto. Non aveva mai governato.
Il Governatore era soltanto un fantoccio, una marionetta, un pupazzo. Il Governatore era soltanto un pinocchio. Era il parto delle nostre fobie, delle nostre ansie.
Restammo a guardare, di nuovo in silenzio. Poi uscimmo, a testa china e con i pensieri unti e accartocciati.
Nel frattempo, fuori le nuvole si erano addensate. Un lampo squarciò il nero del cielo. Iniziò a piovere.
Piovve per sei settimane di fila. E l’acqua tornò potabile.
Poi una mattina di fine marzo rispuntò il sole.
Mi svegliai e mi venne da pensare: è stato un sogno. Sì, è stato un brutto sogno. Se fosse accaduto davvero, oggi non sarei qui.
Accesi la radio e ascoltai i titoli del primo notiziario.
“Dopo un lungo periodo di instabilità politica, finalmente designato il nuovo Governatore: è un boccone rivoluzionario”.