“È inutile che insisti. Non Ti Amo Più” (2).
Son tornato a casa e negli occhi avevo ancora quell’immagine. L’immagine del fuoristrada sulla cui fiancata c’era scritto: “È inutile che insisti. Non Ti Amo Più”.
Al volante del fuoristrada non c’era nessuno. Ne sono certo. Proprio nessuno.
Son tornato a casa e negli occhi avevo ancora quell’immagine. Quella scritta. Quell’abitacolo vuoto. Il semaforo rosso. La nebbia che non era nebbia ma una roba bianchiccia e viscida.
Son tornato a casa e mi son sdraiato sul letto. Mi son sdraiato vestito.
Fuori, in cortile, c’era qualcuno che lavorava. O forse non era fuori, era al piano di sopra. Sentivo il trac trac di un arnese, forse di un cacciavite, o di uno scalpello.
Ho iniziato a pensare che non mi piaceva affatto, quel rumore, quel trac trac. Non è una bella cosa mettersi a lavorare con un arnese, un cacciavite, uno scalpello, nel cuore della notte. Ho iniziato a pensare che quel rumore altro non era che un’intrusione nella mia vita privata. Uno sgarbo, un’azione disgustosa.
Mi son tirato su, sono andato alla finestra. Fuori non c’era nessuno, il cortile era deserto. Di colpo era sparito anche il trac trac.
Son andato in bagno, ho acceso la luce. Sullo specchio c’era una scritta rossa: “È inutile che insisti. Non Ti Amo Più”.
Son rimasto un minuto a guardare la scritta. Stampatello maiuscolo.
M’è venuto su un rigurgito di malinconia.
Allora ho spento la luce e son tornato in camera. Mi son sdraiato sul letto. Ho preso tra le mani la rana, ho aspettato che diventasse calda, e poi l’ho poggiata sulla fronte.
Un attimo dopo, di nuovo il trac trac. Fuori, in cortile. Ne sono certo.