Giorno 9

Giorno 9.

Bum! Bum! Bum!
Ho bussato con forza, quasi mi spellavo le nocche sul legno. Poi ho contato fino a tre.
Uno, due, tre.
Bum! Bum! Bum!
Ho contato di nuovo. Al tre ho trattenuto il respiro.
– Vuoi aprire, sì o no? – ho urlato.
Lei non ha risposto.
– Apri, per piacere.
Niente. Silenzio. Ogni volta così.
Ho dovuto aprire la porta a spallate. Dentro era buio. C’era odore di sudore e di cibi andati a male. Sono andato in camera da letto. Ho sollevato la persiana e aperto la finestra. Gemma era sdraiata a pancia in giù sul materasso, seminuda, i capelli sparsi sul cuscino, le braccia penzoloni e le gambe divaricate. Sembrava un manichino strambo. Ho controllato che non ci fossero tracce di sangue, siringhe, flaconi di sonniferi sul comodino o bottiglie di liquori. Niente di niente.
Ogni volta così.
La settimana precedente ero andato a trovarla in ospedale, e avevamo litigato. Era soggiogata da un senso di fallimento che riguardava il suo aspetto fisico. Così continuava a ripetere.
L’ho guardata di nuovo. Era sveglia, sicuro. Aveva appena mosso un piede.
– Sei scappata – ho detto. – L’hai fatto di nuovo.
Lei niente. Silenzio.
– Tanto lo so che sei sveglia. Che fai finta di dormire.
Lei niente.
Allora mi sono avvicinato e l’ho strattonata. Lei si è rigirata un paio di volte, gli occhi sempre chiusi.
– Allora? Che ti prende?
Lei niente. Ha mosso un braccio, in modo impercettibile.
– Per piacere.
Gli occhi sempre chiusi, la bocca semiaperta. Aveva dei segni scuri sul viso, come se si fosse passata dei carboncini sulla fronte e sulle guance. Ho preso a camminare avanti e indietro nella piccola stanza. Poi mi sono seduto sul bordo del letto e ho chinato la testa. Un istante dopo lei si è sollevata sui gomiti. Mi ha guardato, due lampi dolci, azzurri.
– Sei tornato – ha detto. – Per sempre?
Non le ho risposto. Non aveva senso ripetere ogni volta le stesse cose.
Poi a un certo punto si è alzata e si è avvicinata alla finestra.
– Ti ricordi quella canzone? – ha detto.
– No, non me la ricordo.
– Diceva: il sole non è giallo, è stupido.
– Non diceva così.
– Sicuro che diceva così.
– Il sole non è giallo, è pollo. Così diceva.
– Non è vero.
– Sì che è vero.
– No.
– E pure se fosse, che cosa cambierebbe?
– Niente.
– Appunto.
Lei ha sorriso.
– Sì, ma il sole è giallo – ha detto, incrociando le gambe nude. – E non è stupido.
Ho scosso la testa.
– Dài – le ho detto – dobbiamo andare.
Si è vestita e siamo usciti da casa, mano nella mano.
Mentre camminavamo, lei mi ha stretto a sé e mi ha sussurrato qualcosa all’orecchio. Non ho afferrato il significato delle sue parole, ma le ho dato a intendere di aver capito. Per un istante ho pensato di dirle la verità. Cioè, che non ci saremmo più rivisti. Che quella era l’ultima volta. Che non sarei più andato a riprenderla. Che non aveva senso e tutto il resto. E invece non le ho detto nulla. Non ero così convinto che non ci saremmo più rivisti.
Ci siamo seduti su una panchina nel giardino dell’ospedale. Abbiamo atteso in silenzio che arrivasse il medico. Lei sembrava serena, quando l’ho salutata. Sono andato via senza voltarmi. Era già ora di pranzo, ma avevo voglia di perdere tempo. Così ho preso la strada più lunga per tornare a casa. Sotto il cielo di garza, la luce si era allungata in modo uniforme e soffiava un vento fresco. Prima di rientrare sono passato in rosticceria. Ho comprato un pollo arrosto. La pelle era gialla, rugosa e croccante. Proprio come uno stupido sole.





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