Il titolo potrebbe non rispecchiare i contenuti, e viceversa.
Un paio di sere fa mi è capitato di soffermarmi su un canale televisivo che trasmetteva vecchi programmi in bianco e nero, per lo più documentari e inchieste degli anni sessanta. Il canale era Rai Storia, un canale che mi piace, che guardo spesso. Uno dei pochi che guardo non per dovere o per lavoro ma proprio per il gusto di guardare qualcosa che mi piace.
Trasmettevano un programma-inchiesta girato in esterni. C’era un giornalista, fuori campo, che intervistava alcune donne. Le donne dicevano cose molto interessanti, parlavano di emancipazione, di uomini, di politica.
È complicato mandare avanti una famiglia, accudire figli, se devi lavorare, se non c’è nessuno che ti aiuta in casa, dicevano.
E i mariti?
I mariti come se non ci fossero, dicevano.
Ecco, bisognerebbe far qualcosa in Italia. Però le leggi le fanno gli uomini. Le fanno i mariti, le leggi. E le fanno a modo loro, dicevano le donne intervistate.
Ed erano donne che parlavano bene. Proprio bene. Donne degli anni sessanta, in un vecchio programma televisivo in bianco e nero. Un programma che oggi non se ne fanno più, di programmi così istruttivi, alla tv. Oppure, se se ne fanno, se ne fanno molto pochi. Trasmessi dopo mezzanotte, per giunta.
A ogni modo, il documentario poi è finito. Ed è partito lo stacco della pubblicità. Che Rai Storia è talmente bello che mi piace persino lo stacco che introduce la pubblicità, è uno stacco lieve, delicato.
La pubblicità l’ho saltata, però, non l’ho guardata. Ho pigiato il tasto + P sul telecomando.
Su un altro canale davano un film, una commedia italiana girata negli anni ottanta. C’era un’attrice che indossava una specie di pelliccia.
Lei ha percorso un lungo andito, ha aperto la porta del bagno, s’è rivolta a un uomo con i baffi, seduto sulla tazza del water. L’uomo leggeva un giornale. Lei ha detto
Ciao, esco, ci sono cose che devo fare, cose importanti, cose che devo fare con una certa urgenza, al pranzo ci pensi tu, va bene? C’è da riordinare, in cucina. Se poi dai una ripulita qua e là, è meglio. Va bene? Ciao eh.
Lui non l’ha degnata di uno sguardo, non ha detto niente, ha continuato a leggere il giornale, in silenzio, sempre seduto sulla tazza del water.
Al che ho spento la tv e sono andato a dormire.
Io, poi, il giorno dopo, mi sono ricordato di una cosa, che di sicuro non è che me la sia ricordata per caso.
Mi sono ricordato di quand’ero ragazzo.
Mi sono ricordato di un periodo in cui era consuetudine per me trascorrere serate intere alla Libreria delle Donne, una delle librerie più belle di Cagliari, in via Lanusei.
Adesso non c’è più, la Libreria, è chiusa da tanto.
Vi trascorrevo ore, in quella libreria. Leggevo, curiosavo tra gli scaffali. Sfogliavo libri. A volte li compravo, quando avevo soldi. Sfogliavo libri e riviste. E c’era una rivista che si chiamava Effe, una pubblicazione mensile. Si chiamava Effe, come l’iniziale di femminismo, ed era la prima rivista femminista italiana, nata come rivista di attualità e cultura legata al movimento. Pubblicava inchieste sui diversi aspetti del mondo femminile, gli interventi sulle grandi questioni: dall’aborto alla violenza sessuale, dall’emancipazione nel lavoro al ruolo delle donne in politica.
A me all’epoca piaceva la letteratura nordamericana. E certi autori tedeschi che alla fine degli anni settanta erano molto in voga. Autori che scrivevano storie tristissime, ambientate in periferia o in città tristissime. Queste storie avevano un fascino enorme. Erano tristissime ma mi piacevano da impazzire. Leggevo anche gli articoli di Effe, sia chiaro. Ma le storie tedesche tristissime e la letteratura nordamericana avevano un certo non so che.
E insomma, per ricollegarmi.
A me sembra che le storie tedesche tristissime siano un po’ come i documentari in bianco e nero degli anni sessanta: non se ne scrivono più. O forse no. Forse invece se ne scrivono ancora tante, di storie tristissime in Germania. O forse no.
Forse è colpa mia. Forse dovrei approfondire meglio la questione degli autori contemporanei tedeschi. O forse no.
Ecco.
La verità è che non sono affatto sicuro di aver voglia di leggere una storia tristissima, scritta da uno scrittore contemporaneo tedesco, ambientata in periferia. Non ne ho voglia. Ché se poi mi mettessi a leggerla, finirei per farmela piacere.
5 Comments
Federica
22 Novembre 2017 at 22:33(Segue) Altro che incipit! Attendiamo questo libro delle librerie
Gianni
22 Novembre 2017 at 23:09Le librerie nel libro delle librerie. Un meta-libro.
Pingback:
16 Novembre 2017 at 19:38Andrea Rossi
23 Aprile 2014 at 11:17L’ho letto con il tono di Carlo Lucarelli ed ho trovato una certa corrispondenza.
Era intenzionale lo stile, oppure è solo una coincidenza?
Good!
Gianni
23 Aprile 2014 at 11:23Va benissimo il tono di Lucarelli.
🙂
Paura, eh?