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Nel cesto del pane fresco

Nel Cesto Del Pane Fresco.

Devo ammettere che non so com’è che a volte mi vengano fuori certi ricordi dell’infanzia. Ci deve essere un meccanismo che non so com’è. Che mi sfugge, non c’è niente da fare.

Per esempio.
Poco fa m’è venuto da pensare a certe mattine di primavera che mia madre mi mandava al panificio, a prendere il pane.
Belle, le mattine al panificio. Che era un posto dove si vendeva solo il pane, e nient’altro. Mica come adesso, che al panificio ci trovi anche i cerotti, il vinavil e le mozzarelle. C’era tutto un mondo, dentro il panificio, un mondo armonioso e vero, ma così armonioso e vero che, a fantasticarci sopra, mi verrebbe voglia di tornare indietro, di fare un salto nel passato, come in quelle storie dei viaggi con la macchina del tempo, per rivivere un po’ degli anni andati.

Nel panificio c’erano dei grandi contenitori col pane, delle vetrine con dentro il pane sfuso, di tante forme, di vario tipo.
E nel panificio ci lavoravano il panettiere e sua moglie. Che servivano la clientela da dietro un bancone alto una montagna.

Ma non è questo il punto.
Il punto è che a me piaceva star lì a guardare, ascoltare le voci dei clienti, respirare il profumo del pane appena sfornato.
E ci sarei rimasto ore, dentro al panificio, se non fosse stato per mia madre, ché ci voleva un niente perché si preoccupasse non vedendomi rientrare.
Ci sarei rimasto una mattina intera, lì dentro, a osservare, curiosare e lambiccare, se non fosse stato per mia madre, ché poi dopo la sentivi: dov’eri, con chi eri, cosa hai fatto?

Così mi trattenevo quanto più a lungo possibile. Ma senza esagerare, con moderazione, il tanto che bastava.

E siccome non so com’è che a volte mi vengano fuori certi ricordi dell’infanzia, proprio non lo so, ci deve essere una specie di cassetto nel cervello, un cassetto rotto, che all’improvviso si apre e lascia uscire i ricordi, ecco che poco fa m’è venuto in mente di quando al panificio mi capitava di incontrare una donna anziana, forse una vedova, le gambe corte, gli occhi come capocchie di spillo, le labbra secche e sottili. Restava minuti a scrutare il pane da dietro le vetrine, lo fissava quasi a volerne assaporare il gusto con lo sguardo, tastarne la fragranza o la consistenza. Quindi, mano tremolante, tirava fuori una retina e, rivolta al panettiere, sentenziava: “due bananine, tre spaccatelle e una pasta dura”.
Infilava il tutto nella retina, pagava e andava via.

Due bananine, tre spaccatelle e una pasta dura. Non variava mai.

Per anni ho provato a immaginarmi la sua cucina, la tavola apparecchiata per una sola persona, e, al centro, poggiato su una piccola tovaglia, il cesto del pane fresco.
Due bananine, tre spaccatelle e una pasta dura.
Ogni mattina, ogni sera, a pranzo e a cena.

Che fine abbia fatto quella donna, non lo so.
A ogni modo, saperlo non cambierebbe di una virgola le cose. Non mi aiuterebbe a capire com’è che a volte mi vengano fuori certi ricordi dell’infanzia.
È un meccanismo che proprio mi sfugge, non c’è niente da fare.

4 Comments

  • Gio'

    10 Novembre 2012 at 18:27

    …ma come scrivi!!!!!!!!!!!!!!!!! dio che bello leggerti . devo dire che io amo i racconti non i romanzi ..perche’ leggo poco ..un libro alto non lo tocco nemmeno ..
    che profumo di pane hai sparso attorno a me grazie!!!!!!!!!!!!

    Rispondi
  • Federico

    25 Ottobre 2012 at 02:30

    Io ricordo un panetteria con il bancone di legno consumato con gli scaffali a mo di bocca anch’essi consumati…arrotondati…ingialliti…puliti…dignitosi..ma sopratutto mi ricordo il profumo….

    Gianni hai mai pensato alla “memoria delle cose” ?

    Rispondi

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