Quaderni del coprifuoco (30).
Guardo Diamantina, dorme sul lettone. I suoi riccioli rossi sono sparsi sul cuscino. Vista così, ha l’aria di una ragazzina. Ma non lo è.
Prima ha borbottato qualcosa nel sonno. Poi ha fatto un respiro profondo e si è rigirata nelle coperte.
Sento una punta d’ansia. Forse è solo malinconia, penso.
Mi affaccio alla finestra. Un lampo rapido a nord, una scheggia bianca che squarcia il cielo grigiopiombo. Inizia a piovere.
Nell’altra stanza, Marcel Proust ha l’aria dimessa, un cane bastonato. Bastonato no, ma cane sì. Forse ha capito che oggi si esce da casa soltanto per un paio di pisciatine veloci.
Arturo è chiuso in bagno da quarantacinque minuti. Un tempo quasi irragionevole.
Noemi, seduta con le gambe intrecciate sul divano, sfoglia un album di foto. Ieri notte ha bevuto a malapena un bicchiere di vino. Sobria: è l’unico aggettivo che mi viene in mente.
– Guarda un po’ qui – dice lei.
Mi mostra una foto scattata come minimo un decennio fa. Una foto come tante: sono in piedi, a fianco a un albero, indosso una maglietta bianca e i jeans, guardo in camera, sfoggio un sorriso idiota.
– Che mi dici? – fa lei.
– Che sono passati almeno dieci anni. Forse dodici.
– Sì, ma guarda meglio.
– Dove?
(Sì, è una punta d’ansia: adesso ne sono sicuro).
– Non vedi nulla? Sicuro?
Guardo meglio, osservo i dettagli. Non so che dire, resto della convinzione che si tratti di una foto insignificante, nulla più.
– Incredibile, eh? – dice lei.
(Poi passa. L’ansia).
– Che cosa è incredibile?
Noemi sembra spazientirsi.
– Ma sei cieco?
E mi indica un punto esattamente al centro della foto. C’è una specie di piccolo disco celeste, poco sopra il mio stomaco, sembra una macchia sulla maglia, uno strano sole turchino in miniatura, sfrangiato ai bordi e dai contorni sfumati.
Guardo Noemi con un’espressione di pura e semplice neutralità. Guardo ancora la foto. Poi Noemi. Di nuovo la foto.
– Quindi? – dico.
(Arturo, esci da quel bagno, ti prego).
– Sei così ottuso.
– Ottuso?
(Marcel Proust, sono ottuso?).
Noemi sbuffa.
– È un chakra. Non lo vedi?
E mi mostra nuovamente quel tondo sfilacciato.
– Un chakra?
– Non c’è niente da ridere – dice lei.
– Non sto ridendo.
(Sto ridendo).
– Mai visto una cosa simile – scuote la testa.
– Onestamente, mi sembra una stronzata.
(E se fossi davvero ottuso?).
– No. È proprio il quinto chakra.
– Il quinto?
– Il quinto chakra è il centro della facoltà dell’uomo di esprimersi, di comunicare e di ispirarsi. Mi riferisco alla creatività intesa in un senso impalpabile. Il rapporto con i nostri sentimenti. Lo scambio, il dare per ricevere. Capisci?
– Capire è una di quelle cose che mi riesce bene.
(Legittima difesa, vostro onore).
– Be’, non si direbbe.
– Ti ricordo che sono in possesso di un fantastico chakra celestino e sfavillante. Proprio qui – e mi tocco la pancia.
– I chakra ce li abbiamo tutti.
– E secondo te si possono fotografare?
– Uhm. Solo in condizioni molto particolari.
– Perdonami, ma ho un punto di vista agnostico.
(Punto di vista? Agnostico? Ma come parlo?).
– Questo non conta. L’evidenza, in questo caso, supera l’agnosticismo.
– Bene. Ammesso, e non concesso, che si tratti della foto di un chakra, quali sono queste condizioni molto particolari?
– Qui, nella foto, il tuo chakra ha un’intensità che trabocca.
– Ah.
(Che trabocca?).
– Forse, in quel periodo, quando è stata scattata la foto, stavi per entrare in una nuova dimensione. Ti stavi per staccare dall’Io egoista ed egocentrico. Forse avevi acquisito una nuova esperienza. Avevi imparato che l’amore può propagarsi oltre gli schemi consueti. Stavi per fare il tuo ingresso nella dimensione della coscienza e dell’espansione verso gli altri.
(Va bene. Sto zitto. Sono o non sono ottuso?).
Noemi si alza, si mette a frugare in una specie di sacca colorata, ne estrae un telefonino.
– Posso fotografarti?
Allargo le braccia, faccio di no con la testa.
– Però potresti fotografare Marcel Proust. I cani ce li hanno, i chakra?
Noemi fa una smorfia di disgusto. Anzi, di disprezzo. Si volta e se ne va, decisamente indispettita.
(Ma che cazzo).
Entro in cucina, mi metto a riordinare. Ci sono pentole e padelle impilate come colonne sbilenche. Piatti, piattini, bicchieri e bottiglie di ogni dimensione sparse ovunque. Cimiteri di mozziconi e rimasugli di cibo sepolti dentro vasetti, ciotole e tazzine.
Mi viene in mente un quadro di Paul Klee.
Chissà se a Paul Klee è mai capitato di starsene così, immobile, a guardare il mondo da una finestra, in una mattina grigia e piovosa, le dita intrecciate e i pensieri annebbiati.
All’improvviso appare Arturo. È in mutande, i capelli unti, le palpebre socchiuse e l’andatura fiacca.
– Cos’è, dunque, questa storia del chakra? – dice.
– …
(Il detersivo al limone è finito).
Poi si gratta il collo, bofonchia qualcos’altro di incomprensibile, quindi se ne torna a letto.