Quando i Templi erano in fiamme.
L’altra notte, mentre nel giro di poche ore Tom Petty veniva inizialmente dato per morto, poi vivo, quindi moribondo, e le notizie su internet e i commenti su facebook e twitter si accavallavano in un’altalena di tristezza, stupore, speranza e, infine, dolore, mi è venuto in mente che una volta l’ho quasi incontrato, Tom Petty. Era il 1987 e mi trovavo a Roma insieme a un gruppo variegato di amici divertenti e straordinari, tutti dylaniati, dylanisti e dylanologi. Stavamo seguendo Bob Dylan nel suo girovagare per l’Italia e l’Europa, era il suo secondo tour in Italia, dopo quello dell’84, e lui divideva il palco con Tom Petty e gli Heartbreakers, e ogni tanto faceva capolino anche Roger McGuinn. Ogni sera una scaletta diversa, tanti brani a sorpresa, performance esaltanti. Sembrava di assistere a una specie di Rolling Thunder Review in miniatura. E noi a inseguire gli spostamenti di quella carovana: Monaco, Verona, Roma, Milano. Viaggiavamo in treno, in pullman, stipati a bordo di auto mezzo scassate e sempre a corto di benzina. Alloggiavamo in pensioni da due stelle e mangiavamo panini gommosi e farciti con ogni genere di schifezze. E poi facevamo la fila ai cancelli fin dal pomeriggio per poter entrare per primi e stare così a ridosso del palco. Eravamo sempre abbastanza felici, quei giorni là. Stanchissimi ma felici. A Roma, la sera prima del concerto, ci eravamo concessi perfino una passeggiata vicino al Colosseo. Sembravamo una combriccola di turisti straccioni, ma le nostre magliette raffiguranti Dylan, il suo profilo, il suo faccione e quello di Tom Petty sotto la scritta Temples In Flames Tour, a un occhio più attento svelavano la nostra vera missione. A un certo punto, mentre ciondolavamo all’altezza dell’Arco di Costantino abbiamo notato quattro tizi, si guardavano attorno e scattavano foto, avevano un’aria familiare. Mi pare di aver detto qualcosa come “Ma quello non è Mike Campbell?”. Sì, in effetti era lui. E gli altri tre erano proprio loro, il resto della band. Non sembravano sorpresi dal fatto che li avessimo riconosciuti. Nemmeno erano infastiditi. Così siamo rimasti lì, una ventina di minuti, a chiacchierare con gli Heartbreakers, a parlare di musica e di quanto fosse bella Roma e cose così. Eravamo tutti molto rilassati, e loro molto disponibili. Qualcuno di noi ha chiesto “Ma com’è suonare con Bob?”. E qualcuno di loro, non ricordo chi, ha detto “Oh, lui è a posto, però era molto più sveglio all’inizio del tour, in nord Europa”, e poi si è messo a ridere. Abbiamo domandato dove fosse Tom Petty. “Doveva essere qui con noi, ma ha preferito stare in albergo a riposare”, è stata la risposta. Quindi hanno salutato e se ne sono andati per la loro strada. L’indomani al concerto è successa una cosa strana. Durante un brano degli Heartbreakers – ogni sera, in genere a metà spettacolo, Dylan concedeva loro uno spazio di cinque o sei brani – Tom Petty a un certo punto ha sollevato un braccio e ha lanciato il plettro verso il pubblico. Non so come ho fatto, ma sono riuscito a prenderlo al volo. Non era il classico plettro di plastica, era un triangolo di metallo, sembrava la punta estrema di una cinghia per pantaloni. Anzi, era proprio un pezzo di cinghia. Me lo sono infilato in tasca e al termine della canzone ho urlato qualcosa come “Grazie Tom!”. Lui ovviamente non mi ha sentito.
Succedeva esattamente trent’anni fa, il 3 ottobre del 1987.
Grazie per il plettro, Tom. Lo conservo ancora.