Quel sedici marzo millenovecentosettantotto.
(…)
La radio sulla credenza suona un valzer.
Qualche secondo, poi la musica cessa. Strani crepitii. E una voce maschile.
“Gentili ascoltatori, siete collegati con la redazione del GR2. Interrompiamo le trasmissioni per una drammatica notizia che ha dell’incredibile: il presidente della Democrazia Cristiana, l’onorevole Aldo Moro, è stato rapito poco fa da un commando di terroristi. Gli uomini della sua scorta sarebbero stati tutti uccisi”.
Raccogliemmo le nostre cose, i libri, i quaderni e uscimmo dalla classe senza fare troppo rumore. Rimasi fuori con alcuni compagni, a fumare, in piedi davanti al portone. Poi qualcuno disse che saremmo dovuti andare tutti alla manifestazione. Si crearono dei gruppetti. Ci muovemmo a sciami scomposti verso le strade del centro.
Si riuscivano a percepire i sentimenti delle persone, quella mattina, un coagulo di stati d’animo contrastanti: smarrimento, ansia, eccitazione.
Molti, appena saputa la notizia, s’erano riversati per strada, nelle piazze, nei bar, davanti alla tv. Si scorgevano visi bui e duri, altri ancora increduli.
Di tanto in tanto si udiva qualche coro. C’era chi sventolava bandiere. Rosse, bianche, scudocrociate. Molte erano bandiere dei sindacati. Sui quotidiani pubblicati in edizione straordinaria campeggiavano titoli e foto a tutta pagina.
Mi ritrovai nella pancia di un corteo, lungo e disordinato, che s’ingrossava incrocio dopo incrocio, diretto nessuno sapeva bene dove, forse in via Roma, o in Piazza Del Carmine.
A un certo punto mi sentii chiamare.
– Gabriele!
Mi voltai, era Mario. Mi venne incontro, ci abbracciammo.
– Ma dove vai? – mi chiese scuotendo il capo.
– Dove vuoi che vada? – risposi.
Lui sorrise, scosse di nuovo il capo e si sfilò dal corteo.
– Dai, vieni – disse. E gli andai dietro.
Svoltammo oltre le stradine della Marina, attraversammo la zona del porto e ci sedemmo su un muretto, di lato alla stazione dei treni. Restammo in silenzio per un po’, i pugni in tasca.
Guardai Mario, magro e minuto, infagottato in una giacca a vento bianca e blu, i pantaloni di velluto beige a coste larghe, un buffo cappello di lana. Pensai a quanto fosse piccolo, davvero minuscolo. Sembrava uno scolaro delle elementari, nonostante i suoi quindici anni ancora da compiere.
Aveva occhi grandi e celesti, Mario, e capelli ricci, castani, mani piccole, dita affusolate. Abitava in paese, venti chilometri dalla città. Era un ragazzo esemplare, per dedizione allo studio, serietà e sacrificio.
Sveglia alle sei e cinquanta, colazione, corsa alla fermata dell’autobus, quaranta minuti di viaggio, cinque ore di scuola, altra corsa alla fermata, altri quaranta minuti di autobus, pranzo, studio, cena, letto. E così il giorno dopo, il giorno dopo ancora, e quello dopo ancora.
Mario l’avevo conosciuto a un’assemblea studentesca. Era un tipo deciso, battagliero. Parlava di comunismo, di lotta e di rivoluzione, di cose che non ti aspetteresti certo di sentire da un ragazzino appena uscito dalle scuole medie.
Io, politicamente, mi sentivo confuso. Ero di sinistra, o una cosa del genere. Simpatizzavo. Molta apparenza, poca sostanza. Mi atteggiavo, nulla più.
Mario no. Mario non era affatto così. Lui ci credeva. Era un ribelle, proprio. Dentro e fuori.
– Han fatto bene – mi disse a un certo punto.
– Chi?
– I brigatisti.
Alzai lo sguardo per capire se stesse parlando sul serio. In lontananza si sentì la sirena di un traghetto.
– Ma sei scemo?
– È l’attacco al cuore dello Stato – disse lui serissimo.
Soffiai via una nuvola di fumo e spensi la cicca con il tacco dello stivale. Mi scappò una risata.
– Sei proprio un balosso – gli dissi.
Lui scrollò le spalle, impassibile.
Alla fine mollammo la manifestazione. Ci alzammo e c’incamminammo lungo la salita che portava al vecchio Ospedale Civile. Incontrammo un gruppo di ragazzi e ci unimmo a loro per una partita di calcio, otto contro otto, su uno sterrato tutto pietre, polvere e fango.
Perdemmo, ma segnai tre gol. Uno di tacco.
(…)
[Piciocus, storie di ex bambini dell’isola che c’è.
Di Francesco Abate, Gianni Zanata, Paolo Maccioni, Gianluca Floris, Silvia Sanna.
Caracò Editore, 2011, pag. 24-27]
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La foto di copertina è di Daniele Longoni.