Suona vuota

Suona vuota.

“Si sentiva pieno di se stesso, amaro e un poco stanco e gustava con un piacere duro quel sentimento di integrità, quel malessere senza nome che riassumeva tutta la sua esistenza, al di là delle dolcezze del compromesso e della rinuncia, al di là del comodo scacco che sono le braccia di una donna innamorata, quando si era pronti a versare il proprio sangue per una felicità più perfetta. «Dare il proprio sangue: letteratura! Svengo, io, quando mi fanno una puntura…». La vita va, la Terra gira, ma non cambia niente, se non la lunghezza dei capelli e delle gonne, eppure tutto era cambiato senza possibile ritorno. A vent’anni tutto è ancora possibile; non si sa molto bene quello che si vuole ma si sa, in compenso, quello che non si vuole e si guarda con fiducia agli anni da venire, a quella terra promessa di libertà. A ventisei anni si hanno le mani piene di questa libertà. Si ha un bel rigirarla in tutti i sensi, agitarla: suona vuota. E comincia l’era del sospetto: ci si sente fregati. Come si è arrivati fin lì? Non se ne sa niente; si gira in tondo; il tempo passa; non ci si pensa più. «Eppure ho fatto quello che ho voluto. Era questo che volevo, questo morbido vuoto? Lui ha scelto di dire no, lui è pronto a dare il suo sangue, ma è ancora una fuga in avanti: lui sbocca sul vuoto, attende nella vertigine che lo si venga ad assassinare».

[Tristi periferie, di Walter Prévost, 1979, pagine 116-117, editore Savelli, traduzione di Enzo Pagnani. Titolo originale: Tristes Banlieues, Editions Grasset et Fasquelle, 1979]


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