Tattica e lavagne.
C’è stato un periodo che avevo deciso di regalare a qualcuno un po’ del mio tempo. La prima persona alla quale avevo deciso di regalare un po’ del mio tempo si chiamava Nereo Rocco. Proprio come l’ex allenatore del Milan, ma al contrario: Rocco di nome e Nereo di cognome. All’epoca, Rocco faceva il barbiere e voleva diventare un allenatore di calcio, proprio come Nereo Rocco. Rocco allenava una squadra di ragazzini, giù al quartiere. La mattina e il pomeriggio sforbiciava, rasava, risciacquava e spennellava. La sera allenava. Il salone si chiamava “Chi Ama La Chioma”, che nessuno aveva il coraggio di dirglielo ma era un nome che faceva cagare. Rocco faceva orario continuato, fino alle diciotto. Poi tornava a casa, s’infilava scarpette e tuta, e si fiondava al campetto. Rocco l’avevo conosciuto al liceo. Non era quel che si dice uno studente modello, anzi. Gli andava solo di giocare a calcio. E, infatti, al terzo anno di liceo aveva mollato gli studi. Poi un giorno era sparito. Così, semplicemente. A scuola non s’era più visto. Un paio di mesi più tardi circolava voce che fosse andato a Genova per fare un provino con la Sampdoria. Qualche settimana dopo, non era più la Sampdoria ma l’Inter. Qualche settimana dopo ancora, non era nemmeno l’Inter ma il Napoli. Oppure la Lazio. In realtà non c’era alcuna squadra, non c’era alcun provino. Rocco s’era trasferito a Milano per lavorare come muratore in una piccola impresa degli zii. Del resto, di finire il liceo non se ne parlava: tre materie in prima, promosso in seconda, bocciato in seconda, quattro materie in seconda, promosso in terza, bocciato in terza. E pure quell’anno lì, l’anno dell’abbandono, già si sapeva che per Rocco sarebbe stato un disastro, sarebbe stato costretto a ripetere la terza, un’altra volta. I genitori gli avevano parlato chiaro: o ti metti sotto con gli studi o vai a lavorare. E lui così aveva fatto, se n’era andato a Milano, a lavorare in cantiere. Poi, un giorno, dopo molti anni, Rocco era ricomparso. L’avevo incontrato per caso, in spiaggia, una mattina di settembre. Non era cambiato, giusto un po’ ingrassato. Tra una birra e l’altra, in un bar del litorale, mi aveva raccontato dell’esperienza milanese e di come, per una serie di motivi, avesse smesso di giocare a calcio. Mi aveva parlato anche delle ragazze di Rho, dei derby a San Siro, della nostalgia dei tempi andati e di un paio di progetti che aveva in mente per rientrare e stabilirsi per sempre in città. E così aveva fatto, nel novantotto, frequentando un corso da acconciatore e aprendo “Chi Ama La Chioma”. In quel periodo lì, visto che non sapevo dove sbattere la testa, avevo deciso di regalargli un po’ del mio tempo. Ci vedevamo la mattina per un caffè o per una birra al bar. Poi la sera lo accompagnavo ai campetti. Mi sedevo in tribuna e guardavo l’allenamento dei ragazzini. Rocco era un vero rompicoglioni, tutto schemi, tattica e lavagne. In campo non tollerava improvvisazioni. Era un perfezionista.
– Dovresti terminare gli studi, fare le scuole serali e prenderti un diploma – gli dicevo. – Saresti il secchione della classe.
– Ma smettila – diceva lui. – Piuttosto, perché non te lo cerchi anche tu, un lavoro? Impiegheresti meglio il tuo tempo.
– No. Preferisco regalarlo, il mio tempo.
– Perché?
– Non lo so. Il tempo è una cosa impossibile e meravigliosa.
– Cioè?
– Barcellona-Atletico Madrid, 1973.
– Johan Cruijff.
– Davanti a un gol così non si discute, si applaude.