Al Poetto.
Sabato mattina sono andato da Bianca.
Lei ha preso il pullman per andare al mare. Ero indeciso se starle dietro, o tornare a casa. Alla fine ho deciso di starle dietro. Sono salito sul pullman che seguiva.
Bianca è scesa un paio di fermate prima del capolinea. Io sono sceso a quella successiva. L’ho vista sistemarsi lo zainetto sulle spalle, sollevarsi il bavero della giacca, infilarsi i pugni in tasca e dirigersi lentamente verso la spiaggia.
Non c’era tanta gente. Qualche coppia, un gruppo di ragazzi, due o tre adulti vestiti di nero che correvano e facevano ginnastica, più in là degli anziani con dei piccoli cani al guinzaglio.
Abbiamo camminato lungo la battigia per più di un’ora.
Lei davanti, io dietro, a una distanza di venti, venticinque metri l’uno dall’altro. Il mare era stranamente silenzioso. C’era il sole e soffiava un leggero maestrale.
A un certo punto ho accelerato il passo, mi sono avvicinato tanto da poterla toccare. C’ho anche pensato. Sì, adesso mi avvicino e le sfioro un braccio, mi sono detto. Adesso mi avvicino e la chiamo, così, con un tono di voce normale, pacato, disteso, come se la conoscessi da chissà quanto e ci stessimo incontrando per caso, mi sono detto.
Bianca. Ma sei tu? Ciao, come stai? Che sorpresa.
Adesso la chiamo per nome, mi sono detto.
Bianca. Ciao. Sì, scusa. Ti sembrerà strano. Lo so. Volevo dirti che ti amo.
Adesso la chiamo e glielo dico, mi sono detto.
Bianca. Ti dispiacerebbe fermarti un attimo? Sai, è da tanto che vorrei dirti una cosa.
Adesso la chiamo. Al massimo mi guarda e se ne va.
Bianca. Scusa. Aspetta, non andare. Ora ti spiego.
Adesso. Che aspetti?, mi sono chiesto.
Bianca. Con i pugni in tasca. Il collo scoperto e le spalle dritte.
Bianca.
Niente.
Mi sono fermato. Il mare sempre silenzioso. E la brezza fresca che mi accarezzava il viso.
Sono rimasto lì a guardarla per un po’ mentre si allontanava e diventava un puntino scuro, piccolo, inesistente.
(da “Non Sto Tanto Male” – Quarup, 2011)